Per la pratica e la scrittura femminile delle Alpi

Luisa Rossi, Università degli Studi di Parma

Una ricca documentazione diaristica edita e inedita attesta come le donne, tradizionalmente destinate dalla storia e dalle culture a ruoli stanziali, abbiano in realtà partecipato al fenomeno del viaggio moderno come manifestazione di libertà e desiderio di conoscenza. 

Un interesse che esplode a partire dall’Ottocento: aristocratiche e borghesi, acculturate, educate nelle Belle Arti, sono donne che viaggiano anche da sole, dipingono all’acquarello, scrivono. 

Le Alpi si offrono, date le variazioni altitudinali, come successione di paesaggi e generi di vita diversi che solo lunghi spostamenti nel senso della latitudine possono eguagliare. 

Esse costituiscono, da sole, un “altrove” in tutti i sensi: un ambiente con il quale misurarsi fisicamente; un’alterità socio-culturale per chi proviene dai grandi centri europei; un luogo ricco di storia e di leggende. Dunque, un altrove “perfetto” non troppo lontano da casa, cosa che favorisce la mobilità femminile. 

Henriette D'Angeville nella sua scalata al Monte Bianco.

Nella varietà di fonti reperite presentiamo due figure assai significative nell’apertura e chiusura della vicenda del viaggio storico femminile nella montagna alpina. 

La prima, Henriette d’Angeville, risalendo il Monte Bianco, inaugura la serie di donne che fra Ottocento e Novecento praticheranno le Alpi in viaggi intesi come esperienza intellettuale, culturale, fisica. 

La seconda, Maria Alberta Chiodo, è rappresentativa di quella gioventù borghese delle città del Nord Italia che dopo la Prima Guerra Mondiale è partecipe della nuova tendenza del turismo invernale nelle Dolomiti. 

Entrambe sono autrici di diari che, in quanto scritture “private” e testimonianze immediate, trascinano senza mediazioni il lettore nel clima (sociale, culturale e ovviamente anche meteorologico) e nei paesaggi in cui hanno effettuato le loro esperienze.

Henriette d’Angeville (1794-1871) appartiene a una famiglia della piccola nobiltà francese di provincia, cresce nel castello di Lompnes, nell’alto Bugey (Giura meridionale). La montagna è per la giovane donna palestra del corpo e orizzonte culturale. Si trasferisce nel 1831 a Ginevra, da qualche decennio centro del turismo sportivo e laboratorio della scoperta scientifica della montagna. Henriette ha 44 anni quando, il 4 settembre del 1838, sfida il Monte Bianco riuscendo, a costo di un impegno fisico inaudito, a raggiungerne la vetta. Dell’impresa ci ha lasciato il Carnet Vert e l’Album composto del récit e di 49 disegni da lei commissionati ad artisti ginevrini sulla base degli schizzi fatti durante l’ascensione.

Illustrazione a matita del pittore ginevrino Jules Hébert (1938).

Henriette d’Angeville racconta la genesi del progetto, il dissenso quasi unanime che suscitò, le predizioni catastrofiche, gli accordi con le guide, i preparativi, la descrizione del farraginoso abbigliamento, l’elenco delle provviste necessarie alla spedizione, il primo giorno di “facile” salita, il bivacco notturno, le enormi difficoltà fisiche dell’ultimo tratto che solo grazie a una formidabile forza di volontà Henriette riuscì a effettuare. 

E poi l’inebriante felicità dell’arrivo, l’immensità del paesaggio dominato, la leggerezza della discesa, i festeggiamenti del ritorno.

Negli anni successivi alla scalata del Bianco, Henriette continuò a cimentarsi con la montagna e lo farà fino a quasi settant’anni, salendo sulla vetta dell’Oldenhorn. I documenti di mano della d’Angeville e alcune sue lettere sono preziosi almeno per tre aspetti. Descrivendo la propria esperienza, la donna ricostruisce con ricchezza di particolari il clima complessivo della Chamonix di primo Ottocento, una realtà geografica in cui ormai quasi tutto – dalle nuove attività economiche indotte dalle presenze dei turisti, alle funzioni religiose, alle discussioni in piazza o nella locanda – ruota intorno alle spedizioni sul Bianco da parte di scalatori di tutto il mondo.

Più vicina alla vacanza montana moderna, l’esperienza di Marialberta Chiodo (1914-2015), nipote diretta di Domenico Chiodo, fondatore dell’Arsenale della Spezia.

Di Marialberta Chiodo resta l’autobiografia stesa fra il 1933 e il 1941. Si tratta di tre volumi manoscritti intitolati La mia vita nei quali Marialberta ricostruisce a posteriori, prima sulla base dei racconti di famiglia e della documentazione raccolta, poi dei propri ricordi, il periodo che va dalla nascita fino al 1933. Ai volumi autobiografici seguono altri sette volumi, che descrivono i viaggi in vari Paesi europei e i soggiorni montani compiuti fra il 1935 e il 1940. Tutti i suoi scritti sono rimasti inediti.

Pagine del minuzioso journal intime inedito di Marialberta Chiodo (1936).

La sua autobiografia è anche la biografia di un contesto sociale e di un’epoca: nella fattispecie Marialberta ci ha lasciato il ritratto pieno di particolari di uno spaccato d’Italia fra prima e Seconda Guerra Mondiale.

 Anche le relazioni dei viaggi europei, che la ragazza compie con i genitori nel quadro di un’educazione tradizionale di livello elevato, sono ritratti freschi e immediati che danno radici, già storiche, ai luoghi delle nostre esperienze di oggi: le città d’arte italiane, Parigi, Londra, Berlino, Vienna etc. Ma è qui più di tutto interessante soffermarci sulle descrizioni dei soggiorni in montagna, dove Marialberta inizia a recarsi in compagnia di alcuni amici genovesi nel 1935.

I resoconti di Marialberta Chiodo sono diari veri e propri, che non tradiscono velleità letterarie, anche se non mancano pagine di sensibilità “post-romantica” ispirate dalle bianche distese di neve a fronte delle masse scure delle abetine o dagli effetti dei raggi lunari sulle sagome delle Dolomiti. Sono gli scritti di una ragazza di buona famiglia che dei viaggi nelle stazioni sciistiche alla moda racconta, con una minuzia “topografica” (non a caso disegna sempre anche la piantina delle camere d’albergo), tutti i particolari: il contenuto del proprio bagaglio (abbigliamento sportivo, abiti da giorno, borsa di coccodrillo, abiti da sera); il viaggio materiale (i tempi lunghi del treno con i cambi obbligati); le compagne e i compagni; gli alberghi talvolta semplici, talvolta più di lusso che la ospitano; le pietanze dei pasti descritte con lo spirito di chi ha una buona cultura gastronomica; le libertà di comportamento (il fumo, lo champagne, qualche whisky); le feste danzanti di fine anno; il cinema, la messa la domenica e, naturalmente, le escursioni, lo sci, i paesaggi.

La giovane fu partecipe della nascita del turismo sciistico a Cortina.

Le cinque “settimane bianche” di Marialberta, ancora connotate come esperienze borghesi, riflettono calligraficamente quella che sta diventando l’esaltante banalità del turismo sulle magnifiche Alpi al quale cittadini di ogni ceto, non molti decenni dopo, si affacceranno. Il primo soggiorno sciistico a Cortina d’Ampezzo Marialberta lo compie nell’inverno 1935-1936. L’inverno successivo (1936-1937) è per la seconda volta a Cortina. Nel 1938 sarà ancora nelle Dolomiti, nel rifugio Lavazé, per un’esperienza più spartana rispetto ai precedenti passatempi mondani cortinesi. E a Cortina tornerà, di nuovo, agli inizi del 1939. Nell’inverno 1939-1940 farà il suo quinto soggiorno sciistico nelle Alpi (a Cervinia e Breuil). La guerra interromperà soggiorni e scrittura.